domenica 29 aprile 2007

Ho smesso di fumare

Non ricordo manco più da quant’è che non vado seriamente in vacanza; poiché però bisogna pur trovare dei diversivi, uno dei miei passatempi preferiti durante l’estate consisteva nel pranzare abbondantemente e poi, tornato in camera mia, chiudere la porta a chiave e sbarrare gli scuri, lasciando solo una sottilissima cornice di sole tutt’attorno. Da quel buio iniziava la mia libertà. C’era ad esempio un dvd senza etichetta, dal titolo assolutamente anonimo, meramente descrittivo e quasi scientifico (Under 20 and barely touched), che avevo comprato a prezzo simbolico, già un po’ rigato, dalla videoteca nella quale di solito mi rifornivo affittando. Ora non funziona più, ma all’epoca era di qualità accettabile, anche se di tanto in tanto l’immagine ballonzolava, ma avrete intuito che non si trattava di Jean Vigo, pertanto serviva abbondantemente alla bisogna. Così giravo il portatile verso il letto, inclinavo leggermente lo schermo, infilavo il dvd nel lettore, dove faceva un rumore particolarmente infernale, e mentre gracchiavano i titoli lasciavo cadere i due o tre indumenti che mi coprivano nei balzelloni che compivo verso il letto. Nudo, mi sdraiavo e sentivo le membra sciogliersi nella consapevolezza che quella di cui mi si schiudeva la vista (un’ispanica piatta che veniva dettagliatamente interrogata prima di allungare le mani verso il cazzo del cameraman e regista e voce fuori campo) era la prima di dodici, o quattordici, o quindici scene, che mi avrebbero garantito quattro ore di silenzioso e oscuro batticuore.
Mi masturbavo piano piano, non c’è nemmeno bisogno di dirlo. Ma il momento di vero piacere consisteva nell’allungare la mano verso il comodino, prendere il pacchetto di Camel, sceglierne una e accenderla, tirando la prima boccata mentre l’ispanica succhiava il cazzo pallido del cineoperatore, e godermi lo spettacolo scenerando nel cestino dell’immondizia e sperando che non scoppiasse un incendio.
Ma se anche fosse scoppiato, pazienza. Sarei morto soffocato e carbonizzato sforzandomi di guardare, di là dalle volute di fumo emesse da me stesso, in rapida successione e senza muovere un dito: una biondina vestita da liceale che si faceva scopare in una camera d’albergo; un’abbondante rossa che si faceva penetrare il culo da oggetti di varia dimensione; una secca e un’obesa che si leccavano in una vasca da bagno; trailer di altri film di peggiore qualità; una tizia che si faceva leccare ai bordi di una piscina da un’altra tizia e un tale; l’unica donna decente di tutto il film che implorava un energumeno dal cazzo ricurvo di venirle in faccia; una donna dai seni enormi che infilava una mano intera dentro una ragazzetta bruttina; trailer di altri film e pubblicità telefoniche per l’America; una signorina della porta accanto che baciava sorridente la punta del cazzo che l’aveva appena interamente coperta di sborra; un negro che sorprendeva due bianche con un dildo su un divano, e così via: non sono mai riuscito a vedere la fine non solo perché a un certo punto venivo, ma soprattutto perché, col solitario rivolo di sperma che mi colava dal fianco nudo sul lenzuolo, fra una sigaretta e l’altra mi addormentavo, e dormivo il sonno del giusto.Era un’anteprima dell’inferno, calore fumo e donne nude: ma da qualche mese ho smesso di fumare e ultimamente, quando ho provato a rimettere il dvd senza etichetta nel lettore del portatile, ho abbandonato ogni speranza che torni a funzionare.


giovedì 19 aprile 2007

Lineare A, lineare B

Sarà che sono sempre stato precoce, sarà che sono sempre stato maiale, ma fatto sta che ricordo distintamente di essermi eccitato da bambino, più o meno in quarta o quinta elementare, quando la maestra ci ha spiegato i cretesi. Voi direte: perché? Perché leggendo con attenzione il sussidiario avevo scoperto che a Creta le nobildonne andavano in giro con una scollatura piuttosto ampia, o quanto meno ampia a sufficienza da lasciar scoperto tutto il seno.
Sicuramente sono sempre stato un maiale perché ricordo di aver passato un intero pomeriggio (ma quanti anni avrò avuto? nove? dieci? Dovrei vergognarmene, a pensarci bene) a studiare – ehm – le fotografie degli affreschi del palazzo reale di Micene, in cui di donnine scollate, per quanto necessariamente stilizzate, ce n’era in gran quantità. Ora, immaginate quanto possa essere erotico un sussidiario di scuola elementare e, oltre a concludere che con ogni probabilità vado internato in una clinica specializzata, cercate di capire che non mi eccitava tanto l’immagine in sé e per sé, microscopica vaga e sfocata, quanto l’idea soltanto che le donne potessero andare in giro completamente vestite e, contemporaneamente, con le tette di fuori.
Ammetto che questa faccenda dei vestiti delle nobildonne è l’unica nozione che mi è rimasta riguardo alla storia di Creta (e probabilmente riguardo alla storia in generale). Durante le medie devo aver dedicato qualche sega ai poveri cadaveri sfatti da millenni delle nobildonne che – maestose e immagino profumate – avevano offerto il petto agli sguardi degli ospiti del palazzo reale. Poi grazie a Dio crescendo si studiano sempre meno cose, così al liceo Creta era bella che dimenticata, e con essa le donnine. Tutt’al più mi assaliva qualche vago sentore d’eccitazione quando tizio o caio mi diceva che andava in vacanza a Creta; al che io me lo figuravo a passeggio per una stradina piena di signore e signorine che mostravano le tette senza vergogna alcuna, anzi con eleganza.

Ok, questo dovrebbe essere un blog porno e non un blog storico, quindi ravvivo subito la situazione. La faccenda delle nobildonne cretesi m’è tornata in mente guardando la copertina di Donna di Cuori, in cui per quanto l’abito fosse incontestabilmente medievale e per nulla miceneo, m’è parso subito chiaro che ero di fronte a un’incarnazione della mia infantile fantasia: la donna elegante e altera, vestita di tutto punto, col seno scoperto.


L’attrice si chiama Asia D’Argento, ed è molto meglio dell’originale senza la D’. Ho rovistato nella sua filmografia (Palle in Canna e Cara Maestra soprattutto) e ho scoperto che evidentemente l’associazione d’idee con le nobildonne cretesi non dev’essere venuta solo a me, poiché in buona parte delle sue copertine è sempre perfettamente vestita tranne quella scollatura innaturalmente scesa, quei bottoni criminalmente sbottonati a mostrare tutto il suo ben di Dio.

Ho sempre pensato che per capire se una donna è veramente eccitante non bisogna vederla nuda. Con spirito assolutamente empirico, ho via via compulsato centinaia di foto di Asia D’Argento per arrivare a due conclusioni irrefragabili.





La prima: Aisa D’Argento, paradossalmente, più è vestita meglio è. Il massimo risalto del suo erotismo si ottiene per contrasto fra il seno scoperto e il filo di perle, o il pizzo scostato, o la blusa squarciata. È la controprova che la donna non è un’animalessa qualsiasi (dalla giraffa all’ircocerva) alla quale basta andare in giro nuda perché qualcuno se la fotta – e che al contrario lo stesso vestito può essere ridicolmente ributtante su una donna ed elegantemente arrapante su un’altra. Ne consegue che il mondo è regolato da una profonda ingiustizia intrinseca, ma ci adegueremo.



La seconda: le tette di Asia D’Argento sono una O di Giotto. Sono divine, non v’è macchia né difetto alcuno. Saranno rifatte? Non me ne frega, l’importante è che siano rifatte bene – pensate a quanta gente è uscita peggiorata dalla sala operatoria. Da un lato guardate la forma, la simmetria, il bilanciamento. Non mi era mai capitato prima di vedere tette che, su uno schermo di computer, assumevano profondità tale da sembrare possibile toccarle, premere, giocarci. Poi guardate i capezzoli prominenti, le areole ovoidali, in perfetta proporzione aurea col resto del seno: ad avere le tette grosse sono buone (quasi) tutte, ad avere i capezzoli perfetti no.


Ulteriormente, un paio di tette così bisogna saperlo portare: e i requisiti per portare tette del genere sono uno sguardo leggermente incattivito (per controbilanciare psicologicamente l’affetto materno che sprizza – metaforicamente spero – dalle tette medesime) e una pettinatura sempre impeccabile (per controbilanciare fisicamente la gravità delle tette con una leggerezza indotta dai capelli sottili, lisci o eventualmente appena mossi). Asia D’Argento ha tutti i requisiti; Asia D’Argento ha le tette perfette, a dimostrazione che le tette medesime sono state create per venire mostrate e che bisogna necessariamente rivedere buona parte dei nostri giudizi storici in favore delle nobildonne cretesi. Ne consegue che il mondo, apparentemente regolato da una profonda ingiustizia intrinseca, ha in realtà in sé stesso un principio di perfezione e di consolazione, di cui le copertine di Donna di Cuori, Cara Maestra e Palle in Canna rendono una parziale ma ragionevole idea.
Ora scusate se smetto di fare il critico d’arte, ma non riesco più a tenere le mani sulla tastiera.








venerdì 13 aprile 2007

La vergine Laura, che forse con cento uomini giaciuta era

Io e Laura stavamo insieme all’inizio dell’università. La cosa curiosa è non tanto che lei allora fosse vergine, ma che lo fosse rimasta anche dopo che ci eravamo lasciati; in un anno circa non avevamo mai fatto l’amore, cosa abbastanza grave a pensare che avevamo vent’anni scarsi e soprattutto che lei non faceva altro che pensare al sesso. Non esagero: nel bel mezzo di un’uscita con gli amici, o di una lezione, o di qualsiasi momento pubblico o privato iniziava a lanciarmi certi sguardi bollenti, certe parole esplicite, certi inviti per nulla larvati... e poi si negava. Siamo andati avanti così per un bel po’; all’inizio non ci pensavo nemmeno, sinceramente, perché quando si è ragazzini pur di avere la fidanzata fissa si è pronti a sacrificare qualsiasi cosa, paradossalmente anche il principale motivo stesso per cui quando si è ragazzini si vorrebbe avere la fidanzata fissa – lo so, era un circolo vizioso ma ci ero tanto immerso dentro da non rendermene conto. Qualche mese dopo, Laura mi aveva detto che di notte avevo pronunciato qualcosa di confuso intorno alle distinte parole: “mettere...dentro...dolcemente”. Sarà che con gli anni si perde fiducia nella gente, ma allora ci credetti e ora penso che se lo sia inventato per provocarmi. Voleva vedere l’ossessione e la frustrazione nei miei occhi, e con una frase del genere ci era perfettamente riuscita.
Sia chiaro, mi masturbava regolarmente. Si spogliava, mi baciava, mi eccitava in tutti i modi e, appena capiva che avrei voluto prenderla del tutto, mi chiudeva la sua mano sul cazzo e la ritirava soltanto quando era sporca di sperma. Si puliva le dita in un kleenex con aria colpevole. Voleva che fino alla volta successiva mi sentissi come uno che l’avesse sporcata, le avesse rovinato l’anima. Poi il suo corpo ricominciava a provocarmi, finché nuovamente non mi veniva duro e si limitava ad accarezzarmi. Anche questo era un circolo vizioso, ma ero troppo eroticamente carico e stressato per rendermene conto.
Poi, come accade sempre, ci siamo lasciati. Dieci mesi, undici, non ricordo nemmeno: fatto sta che da allora è tornata a visitarmi regolarmente. Di notte, verso le due o le tre, quando la solitudine si fa più acuta, Laura appare e mi racconta. Tramite questo non comune mezzo di comunicazione ho appreso tutto per osmosi, la sua laurea, i suoi fidanzamenti, la morte di suo padre.
Ora sta da tempo con un ingegnere, e mi racconta le loro piccole sconcezze, le intimità, i giochi. Le cose che non si raccontano a nessuno.
L’ultima volta mi ha squassato, dicendomi che lui, l’ingegnere, l’ha bendata. L’ha chiusa in una stanza. L’ha lasciata sola e nuda. Poi è tornato, almeno venti minuti, una mezz’ora dopo, e le ha dato il suo cazzo da succhiare; ma succhiando s’è subito resa conto che non era il suo, non era il cazzo dell’ingegnere; tant’è vero che il cazzo dell’ingegnere s’è aggiunto subito dopo. Ma nemmeno il secondo cazzo era quello dell’ingegnere. Era forse il terzo? Il quarto? Il decimo? Piena di cazzi tutt’intorno, la vergine Laura che non mi ha mai voluto dentro di lei mi ha raccontato come questi cazzi anonimi e ciechi entrassero e uscissero dalla sua bocca, dal palmo delle sue mani. Dalla fica progressivamente aperta sotto colpi non familiari; erano così tanti che a un certo punto il culo è stato più che un piacere una necessità. Erano così tanti, mi raccontava Laura, che avrei voluto avere non due ma dieci mani, non una ma cento fiche per soddisfarli tutti, per renderli miei e comprenderli e capire così di chi fossero; ma non lo sapevo, continuava Laura, e non potevo che accettarli passivamente. Un oggetto nelle loro mani. Sono stata la tua vergine, ora ero la troia dell’ingegnere. Laura era quanto mai viva e presente al bordo del mio letto e la sveglia sul comodino segnava le tre meno un quarto da ore; il suo racconto, il dettaglio di ogni uomo e di ogni cazzo che le entrava dentro, che le veniva dentro, sembrava infinito, si moltiplicava su sé stesso, si autoalimentava: e lei diceva di sé, mi hanno violentata. Mi hanno abusata. Mi hanno slabbrata. Mi hanno farcita.
Farcita – è stata la parola che mi ha fatto vedere la vergine Laura colare di piacere altrui da ogni buco. È stata la parola sulla quale s’è ritirata con le dita ancora sporche della mia sborra.

sabato 7 aprile 2007

FFSS

Prendo raramente il treno. Nei miei ricordi di adolescente pendolare rimane come il mezzo di trasporto più obsoleto che esista. Non sopportavo le continue soste, l'odore di polvere e chiuso dei vagoni, lo sferragliare delle vetture, i ritardi, le toilette poco pulite, la finta pelle dei sedili, il caldo e il freddo amplificati da spifferi inopportuni e riscaldamenti perennemente guasti, la varia umanità forzatamente rassegnata che viaggiava insieme a me.

Ma di necessità virtù, è ovvio. E così mi ritrovo su questo trenino sgangherato, probabilmente l'ultimo esemplare di antiquariato ancora presente su questa linea, una tratta breve per chilometraggio, ma infinita per tempi di percorrenza.

Tutto è come lo ricordavo: le tendine grigie e polverose sbattono sui vetri del finestrino mezzo aperto, nella speranza che un pietoso refolo di vento possa alleggerire quest'afa agostana. La plastica verde della seduta mi si appiccica alle cosce sudate, costringendomi a dolorosi strappi per ogni cambio di posizione. Lo specchietto sopra il sedile di fronte mi riflette corrucciata e stanca, desiderosa di una doccia. Vorrei essere altrove. Vorrei essere già arrivata o neppure partita.

Pazienza. Almeno sono sola. Tiro fuori il mio giornaletto di parole crociate, la mia matita con la gomma. Per compagnia il silenzio.

Forse mi sono appisolata, o così mi pare. Mi sveglia un rumore improvviso di frenata nel buio di una galleria: deve esserci uno scambio. La luce dello scompartimento traballa, mi pare più fioca di come la ricordavo. Davanti a me un uomo distinto, giacca e cravatta, cartella di pelle. E accanto a lui un ragazzo, jeans e camicia, ipod alle orecchie.

Socchiudo gli occhi. Vorrei addormentarmi di nuovo, non so quanto disti la mia fermata nè che ore siano. Ho un senso di languida pesantezza addosso, i muscoli rifiutano il minimo movimento, come se fossi paralizzata.

I due davanti a me si sono cambiati di posto. Adesso l'uomo è alla mia sinistra, il ragazzo di fronte. E' tutto molto confuso, ma nel dormiveglia sento che parlottano a bassa voce e mi osservano. Immagino che la gonna possa essersi sollevata nel sonno, che mi stiano guardando le cosce: dovrei svegliarmi e abbassarla sulle gambe, ma non ne ho la forza.

Sento un dito - uno solo, leggero, fresco - che mi sfiora una spalla e poi il collo. Sento una mano - parimenti leggera - che mi slaccia quasi tutti i bottoni della camicetta.

Vorrei alzarmi sdegnata, protestare vibratamente per questa mancanza di rispetto verso una passeggera dormiente ma le palpebre sono diventate pesantissime.

Adesso sono due le mani che allargano i lembi di stoffa e abbassano il reggiseno di cotone, mentre altre due mani alzano con decisione la gonna fin sopra i fianchi e mi aprono le gambe. Avverto il respiro affrettato del ragazzo mentre cerca di toccarmi con delicatezza un capezzolo e il sospiro dell'uomo mentre mi scosta le mutandine e segue il contorno delle grandi labbra con l'indice e il medio, affondandoli nella fica.

Sento, penso che dovrei aprire gli occhi, tornare a me, fare qualcosa insomma. Ma il risultato del mio goffo tentativo di muovermi, appiccicata alla similpelle del sedile, è quello di permettere all'uomo di penetrarmi ancora più a fondo con le dita.

Mi sento come una farfalla infilzata da uno spillo.

Disagio, provo un penoso disagio: essere così, alla mercè di due sconosciuti, un corpo inerme e manipolabile, il mio sesso e i miei seni alla vista di tutti. Chissà cosa penseranno di me, chissà cosa si sentiranno in diritto di fare in mancanza di ogni mia reazione.

L'uomo mi s'inginocchia davanti, sento la sua camicia sfiorarmi le cosce. Si è tolto giacca e cravatta e ha arrotolato le maniche al di sopra dei gomiti. Appoggia le braccia sulle mie gambe, le mani calde sui fianchi mi tengono ferma, immobile. Comincia leccarmi il clitoride attraverso la stoffa degli slip e non capisco dove finisca l'umidità calda della sua lingua e cominci quella vischiosa della mia eccitazione.

Adesso è il ragazzo ad essere seduto accanto a me. Mi prende una mano e la posa sopra un'evidente erezione. Poi mi circonda le spalle con un braccio e delicatamente mi ruota con la schiena verso di se', facendomi sdraiare sul sedile e sulle sue gambe. Si appropria del mio seno, dei miei capezzoli, toccando, torcendo, tirando, accarezzando, strofinando con le dita.

Ho una gamba a terra, l'uomo l'afferra e se la porta sulla spalla per poter leccare meglio e più in profondità. Sento la sua lingua che mi entra dentro, poi indugia di nuovo all'ingresso della mia fica, mi succhia le labbra e stringe il clitoride, mentre le dita mi penetrano di nuovo.

Sono imbarazzata e curiosa, vorrei sbirciare, godermi la scena. Tento, ed è come se osservassi me stessa dall'esterno. Adesso non sembro tanto passiva. Muovo il bacino in avanti, protendo la fica verso le dita e la lingua dell'uomo, mentre i capezzoli duri, eretti, non aspettano altro che il tocco del ragazzo, implorando ambedue di fare più forte, sempre più forte.

Gemo, mi agito, sento entrambi darsi da fare su di me, mentre non riesco più a contare le mani, le dita, le lingue e le bocche.

Con uno sforzo sovrumano, apro gli occhi nel momento dell'orgasmo. Vengo ansimando, quasi senza fiato, la bocca asciutta. Lo specchio sopra il sedile mi riflette scomposta e sudata, la fica bagnata e gonfia, i seni che traboccano dalla camicetta, il viso arrossato per il godimento e le mie mani che toccano freneticamente il clitoride sotto le mutandine. Le tendine continuano a sbattere contro il vetro, ma la luce dei neon è più intensa.

Ecco. Era una fantasia. Ho sognato tutto e sono sola. Beh, non esattamente.

Sola sì, se si eccettua il capotreno fermo sulla porta. Che adesso entra nello scompartimento, si toglie il cappello e chiude la porta scorrevole. E tira finalmente quelle maledette tendine.