giovedì 27 settembre 2007

La perfezione che è di questa terra

Allora, notizia imprecisa del giorno: pare che i ricercatori di non so quale università abbiano deciso che il seno perfetto appartenga a non so quale modella, Caprice qualcos'altro, che non si leva mai il reggiseno. Forse appunto per questo il suo è, perfetto quantunque, un seno. Non so se siano perfette anche loro (penso di sì), ma ai ricercatori di questa fantomatica università consiglierei di dare un'occhiata non al seno ma alle tette di Hannah Hilton, che fino a ieri non conoscevo e della quale posto qualche esempio significativo (e, mi raccomando, come sempre mani ben visibili sulla tastiera):







lunedì 24 settembre 2007

Favoletta per Claudia

[Ormai siamo all’erotismo on demand: Claudia è giovane, Claudia è bisex, Claudia ha un feticismo tutto suo per il solletico; e mi ha chiesto una storiella della buonanotte tutta per lei. Eccola qui:]

Ecco cosa si guadagna a fare gli occhi dolci alle sconosciute un po’ tardone in gelateria, attendendo il momento in cui, sole solette, prima si spostano febbrilmente tutt’intorno con la scusa di controllare quali gusti ci sono, poi vi passano da dietro avendo cura di strusciare lievemente il l’abito scollato e il seno contro la vostra schiena e lasciandovi percepire, mentre l’innocente gelataia vi mette fra le mani il cono che avete ordinato, un brivido che non è ancora piacere e non è più solo pizzicore… Ecco cosa si guadagna a uscire dalla gelateria e aspettare l’arrivo della tardona che si va a sedere su una panchina poco lontana e inizia a leccare il gelato con l’aria inequivocabile di chi non aspetta altro che si attacchi discorso con lei e che, una volta che l’ingenuo (io nella fattispecie) s’è avvicinato, lo invita a mangiare il cono mentre la si accompagna a casa.

Si guadagna, ed è la situazione in cui sono ora, di trovarsi completamente nudo e indifeso con le mani legate a una corda che pende dal soffitto, e l’erezione che non accenna a diminuire mentre aspetto la tardona che da una decina di minuti mi ha abbandonato lì dicendo che andava a cambiarsi d’abito. Eccola che torna. Ha addosso una camicetta di lattice rossa, ancora più scollata dell’abito che mi aveva passato sulla schiena in gelateria, e degli shorts neri che la lasciano scoperta fino all’inguine. Sento che sta per succedermi qualcosa di spiacevole, e sono comunque eccitatissimo.

La tardona mi passa vicino, allunga un braccio e mi passa un dito sul petto. “Adesso ti faccio vedere io, tesoro.” Il dito descrive ghirigori sui miei peli. È un contatto minimo che mi sconvolge più di un rapporto completo, col sudore e le urla e tutto. Solo un polpastrello, solo un’unghia, che scende lentamente verso il mio stomaco. Mi viene da ridere, fa il solletico.

Ma la tardona se ne accorge e si ferma. Mi dice che non mi ha legato lì per farmi fare due risate e va a sedersi esattamente di fronte a me, a quattro-cinque metri di distanza, iniziando ritmicamente ad aprire e chiudere le gambe. Gli shorts coprono poco, molto poco. Le tette sembrano voler sbalzare via dalla scollatura. Le mie mani tendono la corda talmente tanto da iniziare a sentire dolore sul serio; ma più di tutto mi fa soffrire l’impronta psicologica lasciata dal suo dito irriverente sul mio petto.

“Vuoi farti anche lui, Claudia?” Di là dalla porta chiusa della stanza sento provenire un mugolio. “Sai, è un bel ragazzo, l’ho immobilizzato, è tutto nudo ed è in tiro.” Che sono in tiro non c’è dubbio, e il sospetto viene confermato anche dal mugolio più forte che sento arrivare di là dalla porta. “Ora vengo a prenderti, Claudia” Il mugolio si fa di protesta. “Niente se e niente ma, Claudia. Chi sbaglia paga, e tu hai sbagliato.”

La tardona esce di nuovo (avrei fatto meglio a non darle retta in gelateria, e a pensare solo al mio cono e all’innocente gelataia) e con uno strappo tento di liberarmi. Inutilmente. Meno di trenta secondi dopo la vedo comparire portando al guinzaglio (al guinzaglio!) una ragazza in reggiseno e perizoma dall’aria dolcissima e mite, imbavagliata, e nell’altra mano una piuma rossa. La ragazza (Claudia, presumo) carpona fino al centro della stanza, a media distanza dalla mia erezione, e la tardona le dà uno strattone col guinzaglio. “Vogliamo spiegare, Claudia, al nostro ospite le ragioni di questa bizzarra situazione?” Claudia annuisce muta. La tardona la avverte: “Guarda, ti tolgo il bavaglio solo per farti parlare di quello che sai. Non azzardarti a dire altro, se no vedi le corde intorno alle sue mani? Diventeranno dei bei braccialetti per le tue caviglie d’oro.”

Il bavaglio scende e Claudia inizia: “Sono al guinzaglio della mia padrona perché ho sbagliato. Ho sbagliato a credere che lei mi avesse preso in casa sua per altro che per pietà, e ho sbagliato a spiarla mentre torturava uno dei suoi tanti ragazzi rimorchiati a caso come te. Ho sbagliato ad attendere che la padrona si addormentasse e a lasciare un bigliettino dolce all’ultimo ragazzo che era lì al tuo posto. La padrona dice che mi sono comportata da bambinetta e che vado trattata da bambinetta.”

Eccolo dunque, il trattamento da bambinetta cui mai avrei pensato mentre ero in gelateria: la padrona avvicina la piuma al volto di Claudia e la passa sulle guance (Claudia si scansa), poi sulle labbra (Claudia sbuffa), poi sul naso (Claudia quasi starnutisce). E la stessa piuma finisce poi sulle piante dei piedi di Claudia, dove si trattiene per qualche lunghissimo secondo (Claudia si fa una risata), e poi risale sulle cosce e le solletica l’inguine (Claudia mugola), le accarezza la fichina (Claudia chiede pietà). La tardona si inginocchia dietro a Claudia e utilizza la piuma con leggiadra maestria, sembra che sia in grado di trasferire tutta la sua carica erotica nei pochi centimetri del suo dito sul mio petto, della piuma su tutto il corpo di Claudia, che ora si agita, sbuffa, si contorce, cerca di sfuggire alla sua aguzzina ma la tardona la trattiene, la tiene sempre a distanza di piuma, Claudia inizia a urlare come una bambinetta felice che giochi con la mamma, la piuma della tardona la tortura in ogni punto del suo corpo, che è tutto un vulcano erogeno, e io vorrei essere lì a guardarle da vicino, a quattro zampe anch’io, vorrei toccare, vorrei leccare, vorrei essere la piuma che conosce ogni segreto del corpo di Claudia…

Sento dello sperma che cola dalla mia erezione. Sento Claudia che ride senza controllo.

venerdì 21 settembre 2007

PocoPorno, ovvero La delusione eterna

L’estate è decisamente finita, ricominciamo da qui.

Ricominciamo dal fatto che ieri, scappato da una pizza con i colleghi e girando a mezzanotte per le strade ormai deserte di ***, ho deciso di entrare nel portone dove amici di amici di amici mi avevano riferito esserci un night club. Ah, mi avevano detto, per venti euro ti godi uno spettacolo erotico. Ah, più che erotico. Ah, per venti euro. E allora, che cosa sono venti euro di fronte all’eternità? Col favore delle tenebre sono entrato nel portone, ho salito le scale, ho mostrato un documento che comprovasse la mia maggiore età (non che ci siano dubbi, vedendomi, ma è la legge) e sono stato immesso nel salone blu del night.



Ora, la faccenda consisteva in una decina di divanetti con altrettanti tavolini e al centro un palo. Tre o quattro ragazze equamente divise fra slave e sudamericane ballavano, vestite di tutto punto, senza mai sollevare la gonna sopra la mezza coscia o senza mai scoprire distrattamente un seno. Macchè, senza mai far scivolare una spallina. Senza mai aprire le gambe. Nessuna ballava intorno al palo, che marciva nella propria inutilità d’acciaio.



Una carina, fra quelle che ballavano, c’era. Una slava che avrà avuto tutt’al più diciannove anni, tutta perfettina e ben vestita, che riproduceva sostanzialmente il movimento dello step. Ogni tanto, come concessione erotica (ah, più che erotica) si ripassava le mani sul gonnellino. Tutto lì.
C’era anche qualche altra ragazza che non ballava, ma restava seduta nella seconda metà del salone, non su divanetti ma su delle sedie. Alcune sbuffano, altre parlottano fra di loro. La meno ragazza di tutte, dal grasso trasbordante, prende coraggio e mi si avvicina per chiedermi se le offro da bere: particolare non trascurabile, c’erano quindici ragazze e cinque clienti, dei quali io ero l’unico italiano nonché ovviamente il più giovane (e, penso di poterci giurare, il più porco, il più pervertito e al contempo quello col senso di colpa più sviluppato). La rimando via dopo averle fatto promesse vaghe per un futuro destinato a non arrivare giammai.


Il maitre, l’unico uomo del circondario a indossare giacca e cravatta, capisce l’antifona e mi si avvicina. Si siede di fianco. Per un nanosecondo pavento la sodomia. Invece mi chiede se so come funziona e, nonostante io sicuro risponda di sì, me lo spiega. Posso scegliere una ragazza a piacimento e offrirle da bere: venti euro tutto incluso per venti minuti. Poi, se la ragazza ha piacere, ci si può mettere d’accordo con lei per ordinare una bottiglia di champagne (cento euro) e bersela nel separè. Ciò che accade nel separè non è faccenda che riguardi né il maitre né il night.


Il tempo stringe, s’è fatta l’una e un quarto e le ragazze sono talmente tante che bisogna prenderne una per non sembrare maleducati. Vorrei la slava diciannovenne ma mi sembra fredda freddissima, allora scelgo una colombiana (me lo dirà dopo, che era colombiana) dal vestito a fiori e dall’ampia e generosa scollatura. Il maitre ci porta una birra (io) e un succo di pera (lei) e ci conduce nella seconda metà del salone, riservata alle coppie. La colombiana mi dice di chiederle quello che voglio. Le chiedo qual è la cosa più eccitante che ha fatto con un uomo. Dice che non può rispondermi. Le chiedo da dove viene. La colombiana risponde che viene dalla Colombia, com’era piuttosto prevedibile. I venti minuti rischiano di trascinarsi nella tessa noia mortale che si prova ogniqualvolta si esce, che ne so, con una mia collega più o meno innamorata. O con chiunque altra, grossomodo. Per vivacizzare, le allungo le mani sulle ginocchia. Mi lascia fare. Risalgo sulla coscia. Mi lascia fare. Cerco di sollevarle impercettibilmente il lembo della gonna. Non mi lascia più fare. Ritorno a parlare e le chiedo che lavoro faceva in Colombia. Mi risponde con un dettagliato resoconto sulla vita delle operaie tessili. La intervallo accarezzandole la guancia. Mi lascia fare. Scendo sul seno. Non mi lascia fare, anzi, non dovrebbe lasciarmi fare: ma sono sufficientemente veloce e scaltro da darle una strizzatina e conservare il ricordo sul palmo. Poi chiamo il maitre e gli dico che venti minuti mi bastano, non ho intenzione di rinnovarli né di ordinare dello champagne per portarmela nel separè. La colombiana torna al suo posto, senza dire né a né ba. Il maitre accetta il pagamento, mi congeda e io, alleggerito dai venti euro, scendo le scale.

Dalla tenda leggermente sollevata di un separè riscontro le scarpe di un cliente che si affannano dietro ai sandaletti di una signorina che dieci minuti prima, al piano di sopra, ballava poco volentieri. Torno a casa e vado a dormire, ma non ci riesco. Mi alzo dal letto, vado in bagno e mi masturbo pensando alle tette della colombiana. Vengo pensando agli anonimi sandaletti, però.