venerdì 21 settembre 2007

PocoPorno, ovvero La delusione eterna

L’estate è decisamente finita, ricominciamo da qui.

Ricominciamo dal fatto che ieri, scappato da una pizza con i colleghi e girando a mezzanotte per le strade ormai deserte di ***, ho deciso di entrare nel portone dove amici di amici di amici mi avevano riferito esserci un night club. Ah, mi avevano detto, per venti euro ti godi uno spettacolo erotico. Ah, più che erotico. Ah, per venti euro. E allora, che cosa sono venti euro di fronte all’eternità? Col favore delle tenebre sono entrato nel portone, ho salito le scale, ho mostrato un documento che comprovasse la mia maggiore età (non che ci siano dubbi, vedendomi, ma è la legge) e sono stato immesso nel salone blu del night.



Ora, la faccenda consisteva in una decina di divanetti con altrettanti tavolini e al centro un palo. Tre o quattro ragazze equamente divise fra slave e sudamericane ballavano, vestite di tutto punto, senza mai sollevare la gonna sopra la mezza coscia o senza mai scoprire distrattamente un seno. Macchè, senza mai far scivolare una spallina. Senza mai aprire le gambe. Nessuna ballava intorno al palo, che marciva nella propria inutilità d’acciaio.



Una carina, fra quelle che ballavano, c’era. Una slava che avrà avuto tutt’al più diciannove anni, tutta perfettina e ben vestita, che riproduceva sostanzialmente il movimento dello step. Ogni tanto, come concessione erotica (ah, più che erotica) si ripassava le mani sul gonnellino. Tutto lì.
C’era anche qualche altra ragazza che non ballava, ma restava seduta nella seconda metà del salone, non su divanetti ma su delle sedie. Alcune sbuffano, altre parlottano fra di loro. La meno ragazza di tutte, dal grasso trasbordante, prende coraggio e mi si avvicina per chiedermi se le offro da bere: particolare non trascurabile, c’erano quindici ragazze e cinque clienti, dei quali io ero l’unico italiano nonché ovviamente il più giovane (e, penso di poterci giurare, il più porco, il più pervertito e al contempo quello col senso di colpa più sviluppato). La rimando via dopo averle fatto promesse vaghe per un futuro destinato a non arrivare giammai.


Il maitre, l’unico uomo del circondario a indossare giacca e cravatta, capisce l’antifona e mi si avvicina. Si siede di fianco. Per un nanosecondo pavento la sodomia. Invece mi chiede se so come funziona e, nonostante io sicuro risponda di sì, me lo spiega. Posso scegliere una ragazza a piacimento e offrirle da bere: venti euro tutto incluso per venti minuti. Poi, se la ragazza ha piacere, ci si può mettere d’accordo con lei per ordinare una bottiglia di champagne (cento euro) e bersela nel separè. Ciò che accade nel separè non è faccenda che riguardi né il maitre né il night.


Il tempo stringe, s’è fatta l’una e un quarto e le ragazze sono talmente tante che bisogna prenderne una per non sembrare maleducati. Vorrei la slava diciannovenne ma mi sembra fredda freddissima, allora scelgo una colombiana (me lo dirà dopo, che era colombiana) dal vestito a fiori e dall’ampia e generosa scollatura. Il maitre ci porta una birra (io) e un succo di pera (lei) e ci conduce nella seconda metà del salone, riservata alle coppie. La colombiana mi dice di chiederle quello che voglio. Le chiedo qual è la cosa più eccitante che ha fatto con un uomo. Dice che non può rispondermi. Le chiedo da dove viene. La colombiana risponde che viene dalla Colombia, com’era piuttosto prevedibile. I venti minuti rischiano di trascinarsi nella tessa noia mortale che si prova ogniqualvolta si esce, che ne so, con una mia collega più o meno innamorata. O con chiunque altra, grossomodo. Per vivacizzare, le allungo le mani sulle ginocchia. Mi lascia fare. Risalgo sulla coscia. Mi lascia fare. Cerco di sollevarle impercettibilmente il lembo della gonna. Non mi lascia più fare. Ritorno a parlare e le chiedo che lavoro faceva in Colombia. Mi risponde con un dettagliato resoconto sulla vita delle operaie tessili. La intervallo accarezzandole la guancia. Mi lascia fare. Scendo sul seno. Non mi lascia fare, anzi, non dovrebbe lasciarmi fare: ma sono sufficientemente veloce e scaltro da darle una strizzatina e conservare il ricordo sul palmo. Poi chiamo il maitre e gli dico che venti minuti mi bastano, non ho intenzione di rinnovarli né di ordinare dello champagne per portarmela nel separè. La colombiana torna al suo posto, senza dire né a né ba. Il maitre accetta il pagamento, mi congeda e io, alleggerito dai venti euro, scendo le scale.

Dalla tenda leggermente sollevata di un separè riscontro le scarpe di un cliente che si affannano dietro ai sandaletti di una signorina che dieci minuti prima, al piano di sopra, ballava poco volentieri. Torno a casa e vado a dormire, ma non ci riesco. Mi alzo dal letto, vado in bagno e mi masturbo pensando alle tette della colombiana. Vengo pensando agli anonimi sandaletti, però.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Io ho sempre evitato di andare in questo tipo di locali, esplicitamente detti "erotici". Servono soltanto per spillare soldi ai clienti. E poi sono timido... mi sudano le mani...

Gisel_B ha detto...

meglio le fantasie a questo punto... :)
lieta di rivedervi... e se posso m'allargo, aderite anche voi all'iniziativa calendario pro ActionAid?
maggiori info da me.
grazie

diavolo ha detto...

@ fbianki: Ammetto di esserci andato per curiosità, ma le ragazze facevano davvero venire lo sconforto. E le mie colleghe di solito vanno in giro meno vestite delle lapdancers di lì.

@ giselle: il rapporto fra fantasia e realtà è quasi sempre penalizzante per quest'ultima, per quanto sia triste ammetterlo. D'altra parte il sesso si basa sul desiderio che è sempre e comunque desiderio di qualcosa che non si ha. Stringere per un attimo le tette della colombiana è molto meno eccitante che decidere se scucire venti euro per poter vederle più da vicino.
Sul calendario di proActionAid daremo un'occhiata. Grazie a te!

Anonimo ha detto...

Ciao e ben tornati, grazie del vostro commento che mi ha condotto qui

diavolo ha detto...

@ tettonemaniaco: grazie a te per essere passato speriamo di rivederti presto!